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Per Aspera ad Veritatem N.17 maggio-agosto 2000
Numero speciale
dedicato all'Unità d'Italia
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Intervista all’autore: Ernesto GALLI DELLA LOGGIA
L’identità italiana


D. - Il suo lavoro, centrato sulla ricerca e l'analisi dei molteplici elementi che hanno contribuito nel corso del tempo a formare il concetto di identità nazionale, prende le mosse dalla posizione geografica dell'Italia, indubbiamente non comune e in un certo senso straordinaria. Le sue riflessioni si rivolgono, in particolare, ai differenti contesti dell'esperienza storica del nostro Paese che, anche in conseguenza di tale posizione geografica, hanno trovato nella penisola una combinazione del tutto peculiare di elementi culturali, politici e sociali provenienti dalle più diverse esperienze, radicandosi in modo diverso nelle varie porzioni di territorio.
Nell'anno duemila, quali particolari questioni pone tale posizione? Si tratta, in particolare, con la fine della guerra fredda e alla luce del processo di globalizzazione in atto, di scenari del tutto nuovi? La nostra comunità dispone, a suo avviso, di strumenti sufficientemente moderni per fronteggiare le nuove sfide?


R. - Credo che la posizione geografica dell'Italia, oggi come in passato, sia di estrema importanza per la sua situazione politica e, in particolare, per le relazioni esterne e la politica estera. Il territorio italiano presenta un enorme valore strategico, costituendo di fatto una sorta di aeroporto naturale rivolto al Mediterraneo, all'Africa e ai Balcani. È quindi inevitabile che la politica estera italiana sia sempre tesa tra queste due direttrici geografiche, l'una continentale - europea e l'altra mediterranea, derivanti dal fatto che il nostro è l'unico paese i cui confini si trovano, rispettivamente, a pochi chilometri da Berna come da Tunisi. Non sono molti i paesi caratterizzati da questa strana pendolarità geografica e la situazione politica successiva al 1989 ha, se possibile, ulteriormente esaltato tale condizione. Infatti l'Italia rimane da un lato un paese inserito nel contesto europeo, nel quale svolge peraltro un ruolo importante, ma dall'altro un territorio la cui posizione geografica porta in qualche modo ad uscire dall'Europa. Fino a quando la presenza sovietica nell'area mediterranea e mediorientale ha agito da stimolo alle tensioni e, nel contempo, anche da deterrente alla loro esplosione violenta e indiscriminata, la singolarità e "scomodità" di tale posizione geografica poteva risultare, per così dire, meno evidente. Con la fine della guerra fredda, il fronte mediterraneo è divenuto più caldo e turbolento, costringendo l'Italia ad assumere un ruolo determinante in quest'area.
In tale nuovo contesto sarebbe poi interessante comprendere quale tipo di rapporto all'Italia convenga instaurare con un paese come gli Stati Uniti che, sicuramente molto più di altri, ha tutto l'interesse ad intrattenere relazioni privilegiate con un alleato (tale è l'Italia nell'ambito della NATO) che gode di una posizione geografica di simile portata strategica.
Temo purtroppo che in Italia, attualmente come in passato, non ci sia una sufficiente consapevolezza di queste problematiche e ciò produce riflessi negativi sulle scelte di politica estera dei nostri governi. Indubbiamente la nostra politica estera paga le conseguenze di una forte divisione del quadro politico italiano. Non credo sia molto chiaro alle nostre forze politiche che nelle questioni di politica estera le divisioni interne dovrebbero assumere un carattere, per così dire, attenuato ovvero essere del tutto eliminate. L'elemento discriminante delle scelte di politica estera dovrebbe essere dato dagli interessi nazionali di fronte ai quali sarebbe auspicabile che le forze politiche fossero più fortemente collaborative. Questo atteggiamento mi sembra completamente assente, sia per ragioni storiche sia in quanto le forze politiche che hanno svolto un ruolo principale negli ultimi settanta-ottanta anni avevano esse stesse un concetto piuttosto approssimativo di interesse nazionale. Vero è che fino al 1989 questa situazione è stata, in qualche modo, una caratteristica dominante in tutta Europa in quanto la guerra fredda aveva contribuito a cancellare il concetto di interesse nazionale inglobandolo in quello più generale di interesse dell'Occidente, all'interno del quale erano compresi anche gli interessi americani. Tuttavia, nel momento in cui, con la fine della guerra fredda, è venuto meno un antagonista forte quale era l'Unione Sovietica, si può dire che, in qualche modo, il concetto di interesse nazionale abbia ripreso vigore in tutta Europa. In questo processo l'Italia è arrivata con un certo ritardo comprendendo, ad esempio, quanto sia utile la presenza militare italiana all'estero, anche se mi pare che le scelte in quest'ambito vengano ancora adottate in maniera poco selettiva, aderendo a tutte le iniziative di peace-keeping senza valutarle in relazione al proprio interesse nazionale.
In relazione all'ultima parte della domanda, non credo che il nostro paese disponga degli strumenti strategici, militari e politici adeguati ad affrontare e gestire, anche dal punto di vista dell'intelligence, una situazione tanto peculiare e complessa. Non possiede, ad esempio, forze armate sufficienti ed efficienti né sistemi di comunicazione protetti. Soprattutto, non presenta una tradizione politica che spinga i nostri governi ad adottare una politica della sicurezza autonoma nel quadro internazionale e ad emanare direttive precise ai competenti apparati dello Stato, tra i quali anche i servizi di informazione e sicurezza. La storia degli ultimi decenni purtroppo dimostra che anche queste strutture hanno risentito dell'assenza di un quadro politico e normativo di riferimento certo e stabile, riflettendo in qualche modo la disomogeneità della "politica". Fondamentalmente credo che le carenze che si sono evidenziate nei servizi segreti della Repubblica dipendono in grandissima parte dal fatto che l'Italia dopo il secondo conflitto mondiale ha di fatto subito una radicale perdita di sovranità e quindi anche i servizi si sono abituati per troppo tempo a fare capo ad entità politiche non nazionali, quali ad esempio la NATO o gli Stati Uniti, e un governo che non può disporre con certezza dei servizi segreti è un governo che non ha piena e vera libertà d'azione.

D. - L'"eredità latina" e il "retaggio cattolico" sono due elementi da cui, nella sua interpretazione, non si può assolutamente prescindere per avvicinarsi alla comprensione del problema dell'identità nazionale italiana. Molto interessante, quanto alla questione dell'eredità latina, è l'excursus sul diritto romano e, in particolare, la conseguenza che sembra derivarne di una diffusa concezione negativa del potere, con una posizione "anarchicheggiante" del cittadino, la cui strada porta "all'illegalismo" o meglio "all'alegalità" di massa. Come può essere rivisitato questo quadro che, prima facie, pare un po' disarmante? Quali prospettive per una società delle regole, meglio integrata nel contesto europeo?

R. - Sebbene penso si tratti di un'opera che richiede molto tempo per essere realizzata, credo che il rimedio per favorire la creazione di una società delle regole sia tutto sommato semplice e facile a dirsi. Innanzitutto bisognerebbe avere un sistema di regole semplice e concreto. La presenza di leggi numerose e farraginose e l'assenza di testi unici favoriscono la diffusione dell'illegalità. È necessario quindi ridurre il numero di leggi, scriverle meglio, renderle più chiare e comprensibili ma, soprattutto, farle rispettare. Se non esiste un apparato dell'amministrazione della giustizia capace di gestire con rapidità ed efficienza la propria funzione, in quanto molti reati rimangono impuniti, il sistema non funziona. Ciò ingenera nei cittadini la convinzione di non essere garantiti dalla giustizia del proprio paese. Siamo in presenza di una catastrofe culturale le cui responsabilità vanno rintracciate in vecchie consuetudini e corporativismi. Come se non bastasse, subiamo anche i richiami da parte di organismi giurisdizionali internazionali per violazione dei diritti dell'uomo.
Il problema è che in Italia non si riesce ad applicare sanzioni a chi viola le regole. Non sono certo, peraltro, che questa situazione possa essere in qualche modo migliorata dalla nostra partecipazione all'Unione Europea in quanto il problema non sta solo nell'approvazione delle regole, quanto soprattutto nella capacità di garantire il loro rispetto. Siamo in presenza di una forte cultura dell'inefficienza che produce illegalismo e ritardi. Credo che ciò dipenda anche dall'organizzazione delle carriere burocratiche, nella quale il merito ha avuto sempre meno incidenza a vantaggio dell'anzianità, anche a causa di una forte sindacalizzazione del settore. Non può esistere una cultura dell'efficienza in una struttura in cui la gerarchia è organizzata in base al trascorrere del tempo e non al merito e alla produttività. Sarebbe importante capire che è vitale per una società la presenza di un diffuso senso dell'autorità, intesa come responsabilità e non necessariamente come anticamera dell'autoritarismo. Sotto quest'ultimo profilo forse qualche passo avanti è stato fatto. Se poi questo sia in grado di produrre dei frutti in futuro è per me difficile dirlo. Si tratta indubbiamente di uno dei grandi problemi di una collettività intorno a cui, tuttavia, è difficile organizzare il conflitto sociale e quindi un'azione politica concreta. In una società democratica i problemi che hanno maggiori possibilità di essere risolti sono quelli intorno ai quali è possibile organizzare un conflitto, ossia una situazione in cui esistono due parti che sostengono tesi contrapposte le quali, o attraverso la vittoria dell'una sull'altra o con un compromesso, giungono ad una soluzione. L'obiettivo e l'interesse della politica è proprio individuare attraverso tale processo le soluzioni ai problemi. Nelle democrazie le situazioni che non producono conflitti, caratterizzate da una pervasione cancerosa del disagio, sono invece molto più difficilmente gestibili e risolvibili da parte delle organizzazioni statuali, anche perché in simili contesti non è possibile individuare un unico e definito responsabile del disagio che tutti peraltro subiscono e ciò, in qualche modo, finisce per determinare una condizione in cui tutti accettano la diffusa illegalità senza reagire.


D. - Nella sua descrizione del lungo processo dell'identità italiana tornano spesso precisi riferimenti allo straordinario patrimonio artistico che pure è stato elemento eccezionalmente visibile della nostra evoluzione storica. Ciò è spesso collegato, nel suo saggio, al paesaggio italiano e, non di meno, al cattolicesimo popolare come religione largamente diffusa. Particolarmente significativo è l'episodio, da lei narrato, della comunità delle donne di Monterchi che si oppone al trasporto a Firenze dell'immagine della Madonna del Parto di Piero della Francesca; inoltre, tra Giotto e Caravaggio, Michelangelo e Bernini - sono sue parole - "è l'arte fiorita in Italia che appone sul cattolicesimo il suggello simbolico più alto e definitivo". In che misura l'arte italiana può essere considerata fattore di identità nazionale?

R. - L'immagine dell'Italia è affidata in parte grandissima al suo patrimonio artistico. Un terzo del patrimonio culturale ed artistico dell'Occidente si trova in Italia. Inoltre gli italiani sono sempre stati considerati all'estero, e penso ciò sia vero anche oggi, come persone che hanno un particolare rapporto con la forma proprio perché vivono in un paesaggio che possiede una squisitezza formale assolutamente unica al mondo. Si tratta di un paesaggio che non presenta quegli aspetti di durezza drammatica che invece caratterizzano, ad esempio, i paesi nordici o americani, in cui persino fenomeni molto drammatici come, ad esempio, il vulcanismo che domina le coste italiane dalla Sicilia al Golfo di Napoli, si inseriscono comunque in un quadro caratterizzato da una sorta di bellezza pacificatrice. Gli stranieri colgono proprio questo carattere armonico degli italiani accompagnato ad una loro vocazione per la forma in tutte le sue manifestazioni, dall'arte, al design, alla moda. Tutto ciò che presenta uno specifico segno della forma italiana gode di un rango di eccellenza nel mondo. È indubbia la vocazione degli italiani ad inventare forme ed armonie particolarmente riuscite, semplici e al tempo stesso profonde. Credo che ciò derivi dalla tradizione agricola mezzadrile che era fortemente legata alla manualità in quanto costretta a costruirsi tutti gli strumenti di cui necessitava nella sua quotidianità. Le stesse colture particolari praticate in Italia richiedevano una particolare manualità: basti pensare a quanta cura e abilità manuale richiede la coltivazione della vite, oppure all'artigianato o, per portare un esempio sicuramente a noi più vicino, alla meccanica automobilistica italiana.
Va inoltre considerata l'enorme importanza che nello sviluppo artistico italiano ha avuto la religione cattolica. A differenza dell'ortodossia del protestantesimo, la religione cattolica ha stabilito un rapporto con la figura umana e con la sua rappresentazione assolutamente particolare. In Oriente prima c'è stata l'iconoclastia e poi la riproduzione sempre uguale a se stessa di alcune tipologie di immagine. Nelle icone, oggi, vengono riprodotte le stesse immagini di quattrocento anni fa e, dal punto di vista teologico, il senso dell'icona è proprio quello di riprodurre sempre la stessa rappresentazione della divinità senza possibilità per il singolo individuo di deviare da questo standard. Il protestantesimo ha poi cancellato l'uso dell'immagine, mentre il cattolicesimo ha sempre mantenuto un rapporto fortissimo con la rappresentazione della figura.
La Chiesa cattolica, comunque, ha svolto storicamente, e penso ciò sia vero ancora oggi, un ruolo fondamentale per l'Italia non solo sotto questo profilo, ma anche da un punto di vista, potremmo dire, più prettamente politico, soprattutto per quanto riguarda l'immagine dell'Italia all'estero. Basti pensare che la Chiesa è l'unica "organizzazione internazionale" nella quale ancora oggi la lingua ufficiale è l'italiano e in cui l'essere italiano può costituire un buon viatico per raggiungerne i vertici. Inoltre è indubbio che gli italiani attraverso l'organizzazione della Chiesa cattolica hanno la possibilità di accedere a canali internazionali, attraverso il sistema dei nunzi e della diplomazia vaticana, ai quali non arriverebbero in altro modo. È una grande risorsa dell'Italia sapere di poter contare nei momenti critici sull'appoggio dell'organizzazione cattolica nel mondo.

D. - La parte del suo libro più espressamente rivolta all'analisi politica, tratta temi importanti, in modo efficace e convincente. Alcuni di questi, non sono probabilmente nuovi al dibattito, come quello dell'individualismo degli italiani o quello, ancora più sentito, dell'assenza dello Stato e della forza dominante delle oligarchie. Certamente stimolante è la sua idea che una corretta chiave interpretativa debba affiancare all'assenza della politica l'assenza della cultura, quali elementi che hanno determinato il "terribile ritardo" nell'appuntamento dell'Italia con la modernità. Il tema è certamente d'attualità, e sempre più spesso la parola cultura viene usata nel dibattito politico come un'arma segreta dialettica che non cessa di connotarsi con caratteri di astrattezza. Un esempio di ciò è la cd. cultura delle "Istituzioni", giustamente da più parti auspicata, ma che non sembra chiaramente emergere nell'agenda del nostro sistema-Paese. Come si coniugano o dovrebbero coniugarsi, in questo contesto, cultura e politica?

R. - Nel sostenere che in Italia manca la cultura della modernità intendo riferimi al fatto che manca essenzialmente una cultura moderna del soggetto, mirata all'individuo, ai diritti individuali e all'espressione della soggettività individuale. Il nostro paese non presenta questa cultura in quanto nel settecento l'Italia ha perso il treno della modernità. La fama degli italiani di grandi viaggiatori e inventori purtroppo si è fermata al cinquecento. Nell'ottocento in Italia - fatta eccezione per gli ecclesiatici e i missionari che andavano in America Latina, in India, in Cina, in Giappone in nome e per conto della Chiesa cattolica - mancavano atlanti, mappamondi, vocabolari, tutti strumenti elementari della conoscenza del mondo moderno. Ciò ha comportato una grave perdita di contatto con i luoghi dai quali proveniva la modernità. È stato quindi poi necessario procedere ad un recupero del ritardo accumulato che però ormai non poteva che avvenire attraverso la riproduzione di cose inventate da altri. Tutto ciò che è moderno in Italia è copiato da altri paesi. Gli italiani non hanno inventato nulla di ciò che è moderno: l'amministrazione, il Parlamento, l'organizzazione dell'esercito e della scuola, esattamente come oggi, fatte le dovute differenze, accade per i Paesi del Terzo Mondo che copiano dall'Occidente, anche se ovviamente questa realtà presenta caratteri ben più drammatici per via della profonda differenza culturale esistente tra questi paesi e l'occidente stesso. La necessità di confrontarsi con realtà che non hanno origini e radici italiane ha quindi reso più difficile l'approccio dell'italiano al mondo moderno.
Per quanto riguarda quella che si definiva la "cultura delle istituzioni", che propenderei a meglio definire con il termine di "mentalità", bisogna considerare che l'Italia ha avuto una nascita politica particolarmente difficile e tormentata, caratterizzata da un forte connotato rivoluzionario. Uno Stato che nasce dalla volontà di una esigua minoranza, attraverso una guerra civile, contro la religione della maggioranza dei cittadini è difficile che abbia una cultura delle istituzioni. La cultura delle istituzioni richiede una base consensuale vasta che è proprio quello che è mancato agli albori dello Stato italiano e che ancora oggi stiamo pagando.